COME GLI UCCELLI

Da qualche mese la Palestina è di nuovo insanguinata da una guerra in cui l’aggredito, Israele dopo l’incursione di Hamas dell’ottobre scorso per cui ha ricevuto giustamente la solidarietà del mondo, ha scatenato una reazione quanto meno sproporzionata sulla striscia di Gaza, aggiungendo ai suoi 1.500 morti 23.000 cadaveri palestinesi spesso civili, in un processo che si autoalimenta e in cui ebraismo e sionismo si confondono e il semitismo e l’antisemitismo (di cui l’Europa è la principale storica colpevole) diventano strumenti a senso unico..

La giusta difesa che richia di trasformarsi in vendetta quasi che Israele non riuscisse ad estinguere la propria rabbia/paura o forse avesse scelto il momento di portare fino in fondo quella che una parte del suo governo ritiene la sua missione: avere tutta la Palestina Storica.

Per questo “Come gli uccelli” di Wajdi Mouawad è non solo uno spettacolo di notevole qualità ma anche ‘necessario’ ed ‘esigente’ nelle tematiche che affronta e che giustamente ci propone in un oggi, purtroppo, ancora una volta da esse sanguinosamente segnato e ferito, e che si segnala per il profondo respiro storico e per la necessità di sottrarlo alle dinamiche di una cronaca che spesso disconosce l’umanità condivisa delle persone nel loro presente ma anche nel loro passato.

È infatti, questa, una drammaturgia chiamata a padroneggiare una tragedia stratificata in anni, decenni e forse anche secoli di fronteggiamento aspro e spesso violento tra ebrei israeliani e palestinesi, siano questi musulmani o cristiani, e che ha prodotto una incomprensione tanto profonda da sembrare insuperabile.

Sconta in ciò la difficoltà a discernere ragioni e reciproche colpe, che si sovrappongono e sfrangiano nel tempo delle rispettive rivendicazioni e purtroppo alternanti oppressioni, un desiderio di discernere peraltro cui, forse, più che la ragione, sia essa storica od esistenziale, necessita il sentimento di una umanità che ricomponga le diversità.

La Compagnia Mulino di Amleto, che lo porta in scena con la apprezzabile regia di Marco Lorenzi se ne fa carico ideando un transito scenico costruito sulla dissonanza temporale che insieme compatta, in un continuo andamento circolare, senso e significare del testo ma insieme impone una sorta di eliminazione della prospettiva storica nell’eterno ritorno della prospettiva scenica che cerca di affondare nelle radici essenziali e, appunto, umane del Dramma in sé e dei drammi singolari che al suo interno si manifestano.

Una ‘apparente’ storia di amore, forse fin troppo icastica e simbolica, si mescola ad un antico segreto che dovrebbe svelarla e risolverla ma che infine la rinchiude dentro l’ineluttabile sovrapporsi e ribaltarsi di identità culturale e di identità genetica, il cui reciproco interrogarsi percorre l’intero dramma costituendone il tema centrale.

L’idea di riscrivere la contrapposizione arabi/ebrei dentro l’evidente meccanismo shakespeariano (del resto sappiamo che “Giulietta e Romeo” si è sempre adattata ai più diversi scenari) è  interessante ma forse troppo, per così dire, consapevole, e il salto ‘affettivo’ che comporta la rivelazione del segreto può risultare, in questo contesto, un pò incoerente.

Del resto il rischio e il prezzo di un desiderio più didattico che etico, quando è prevalente nel testo, è quello di una certa ‘verbosità’, che la sua revisione non elimina completamente.

Il rischio cioè di non favorire l’empatia e la compartecipazione a dolori e sentimenti condivisibili facendo  del teatro civile un teatro a tesi che però, al contrario dell’alienazione brecthiana, rischia di non sottolineare il sentimento profondo che l’evento porta con sé.

Ne soffre quindi in un certo qual modo e in parte anche la recitazione che a volte oscilla tra il tono latamente declamatorio che la irrigidisce ed un naturalismo gridato un po’ sopra le righe.

D’altra parte, a mio avviso, la messa in scena di Lorenzi è capace di portare alla luce e di rendere più dinamico lo sviluppo del testo drammaturgico, attraverso un transito fatto di movimento espressivo che in un certo senso libera l’impassibile monotonia del muro che divide implacabilmente soggetti ed oggetti della narrazione, rendendo luminosa e trasparente l’ombra che li opprime.

Ma è soprattutto l’utilizzo, efficace e quasi visivo nelle proiezioni che si accumulano l’una sull’altra come lo spessore del tempo, di un plurilinguismo (iscritto peraltro nel DNA culturale del suo autore, libanese naturalizzato canadese) che, tra arabo, ebraico e tedesco, sembra segnare i vertici di una tragica triangolazione.

Una coproduzione del Teatro Nazionale di Genova, al Teatro Gustavo Modena dal 9 al 14 gennaio, numeroso il pubblico.

Di Wajdi Mouawad, consulente storico Natalie Zemon Davis, adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi, traduzione del testo originale Tous des oiseaux Monica Capuani, regia Marco Lorenzi, con Federico Palumeri, Lucrezia Forni, Barbara Mazzi, Irene Ivaldi, Rebecca Rossetti, Aleksandar Cvjetković, Elio D’Alessandro, Said Esserairi, Raffaele Musella, scene e costumi Gregorio Zurla, disegno luci Umberto Camponeschi, disegno sonoro Massimiliano Bressan, composizioni originali Elio D’Alessandro, video Full of Beans – Edoardo Palma & Emanuele Forte, progetto Il Mulino di Amleto,  produzione A.M.A. Factory, ERT-Emilia Romagna Teatro Fondazione, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Nazionale di Genova.

Pubblicata su Dramma.it il 12/1/2024 Foto Giuseppe Distefano

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