CHICOUTIMI – A queste latitudini la Francia è vista come mito e desiderio, idolo e miraggio, terra dei Padri Fondatori. Alle finestre delle case non è raro trovarvi una Torre Eiffel sagomata. Nei bagni niente bidet. Il water è posto molto in basso e l’acqua viene fatta defluire con la forza di gravità come se si aprisse una piccola botola, come sui treni o sugli aerei, e non scende dall’alto come in Italia. Anche il fiordo ribalta la nostra concezione di fiume che sfocia nel mare. Il fiordo è un lembo, una lingua di mare che entra nella terra. Il gioco è sottile ma sostanziale. La bandiera del Quebec ha qualcosa che la fa assomigliare a quella di Firenze; divisa in quattro parti, come quella sarda o corsa, su sfondo blu e una croce bianca e dentro ogni riguardo presenta un iris, un giaggiolo si direbbe sulle sponde dell’Arno, simile in tutto e per tutto a quello dei Medici. E’ proprio la triangolazione Medici-Francia-Quebec a far sì che il disegno del fiore sia pressoché identico.
La locandina del Fiams ha un che di visionario e onirico, trasognante e timburtoniano: una grande bocca rosa, dentro la quale nuotano i delfini e le sirene, un grande orecchio giallo, dove dentro si va in bicicletta oppure sosta una famiglia di orsi polari, un grande occhio azzurro dove dentro la retina un albero prende forma e regala ossigeno. Le marionette in Italia troppe volte sono confinate nell’ambito del teatro ragazzi, se non teatro per l’infanzia. Qui, per “marionette” s’intende tutto quel grande cosmo e universo fatto e composto da pupi, burattini, ma anche ombre, di figura e pupazzi ed anche maschere. Un globo variopinto dove finiscono, per rimanere nell’ambito italiano, Mimmo Cuticchio e Massimo Schuster, i grandi Carlo Colla e figli, la giovane Marta Cuscinà e i fiorentini Pupi di Stac, Claudio Cinelli ed Elisabetta Salvatori, Fabio Modesti o il compianto Otello Sarzi, per l’uso della maschera, i giovanissimi Dispensa Barzotti, i berlinesi della Familie Floz, gli spagnoli Kulunka e gli Zaches, i Fratelli Forman, figli del premio Oscar Milos. A Parma c’è il Castello dei Burattini, assolutamente da immergersi. Solo per citarne alcuni. La marionetta ha a che vedere con l’artigianalità, con le mani, il mestiere, il costruire. Tanti esempi qui al Fiams dai quali trarre spunto e ispirazione, colori e bagliori.
Trae linfa dall’“Aspettando Godot” beckettiano il morbido “Ogo”, a cura della compagnia quebecchese Theatre des petites ames, che ha nel mistero dell’incontro, nell’attesa dell’altro, nel brivido della scoperta i suoi punti forti. In uno scantinato o garage, in un sottoscala dimenticato, in un luogo nascosto e segreto, tra casse e scatole dal sapore di matrioske, tre personaggi si ritrovano tutti e tre con in mano la lettera di un fantomatico Ogo, che non hanno mai visto, che ha dato appuntamento ai tre (ognuno ignaro della presenza dell’altro) per partire, per salpare verso una nuova vita, un mondo lontano e diverso. L’atmosfera è coloniale, polverosa d’inizio secolo scorso, di viaggi e terre esotiche. Tra i tre prima l’imbarazzo poi la timidezza prendono corpo ma questa piccola grande stanza è piena di cunicoli e passaggi, botole e nascondigli per curiosare e giocare e, in fondo, conoscersi. La diffidenza ben presto diviene amicizia e il concerto a colpi di tosse cementa e certifica questa strana unione. E’ soprattutto una wunderkammer di stanze concentriche multidimensionali quella che sono felicemente costretti a dividere, tra bottoni, carillon e xilofono si animano le ombre al suono di grattugie, pennelli e cuscini. Il fantastico e immaginifico Ogo si manifesta ad ognuno sotto sembianze diverse: ora è un gatto (ricorda lo Stregatto di Alice), adesso è un serpente tendente ad una murena, ora un pesce. Cercano la soluzione al loro problema (chi è Ogo e quando arriverà?) fuori dalle loro esistenze senza accorgersi che la verità è abbagliante ed è sempre stata davanti ai loro occhi: infatti Ogo è composto dalle iniziali dei tre nomi: Octavio, Gedeone e Odille. Stavano cercando loro stessi e, alla fine, si sono trovati. Chi trova un amico trova un tesoro. Una vita appesa al filo.
Nel solco e nel passaggio tra l’età infantile e l’adolescenza, in quel terribile, tremendo e bellissimo momento dove tutto si stravolge e cambia, in primis il corpo, “Bella”, a cura del gruppo francese Le Clan des Songes (tra i tre la genovese Marina Montefusco) è un delicato, raffinato e tenero affresco, a piccoli tocchi soffici, della vita di una bambina che si trova a fare i conti con le trasformazioni in atto. Bella è lungagnona, sgraziata, snodabile come una qualsiasi adolescente annoiata, non più bambina ma ancora non adulta, che non riesce più a divertirsi con i giochi dell’infanzia ma che ancora non ha la maturità per i pensieri adulti. Le nuvole di panna cadono e sembra di rivedere il celebre incontro tra il Piccolo Principe e la volpe, nubi che diventano gabbiani che piroettano come i sogni, nuvole gonfie e panciute come balenottere bianche. Anche l’albero accanto a lei adesso cresce, entrambi nella solitudine. I fermagli si librano come farfalle, i suoi passi leggiadri hanno il suono del pianoforte mentre le scarpe, al sapor di Fantasia disneyana, hanno il carattere acido e strusciato del contrabbasso. “Bella” è elegante e generoso, una piccola grande fiaba con tre interpreti che, in un buio perfetto e organizzati in movimenti minuziosi e precisissimi, si incastrano alla meraviglia donando anima e sentimenti, pensieri e i dubbi di tutti gli adolescenti, quelli che saranno e noi che lo siamo già stati. Le sue trecce prendono vita e diventano altre mani, altre braccia come Shiva, come Medusa, fin quando il passaggio da bozzolo a crisalide non è completo. Ancora una volta ha vinto la vita che si genera e si rigenera in continuazione. E porto via con me baracca e burattini.