SAGUENAY – Il gioco si fa duro e politico. Il burattino adesso si fa memoria e passaggio di un corpo straziato, corroso e vilipeso dalla malattia come denuncia e protesta contro ogni violenza perpetrata nel mondo, dietro sbarre d’acciaio, dentro fascismi d’ogni tipo e colore. Dopo aver visto “Haikus de prison” e “Blind”, qui al Fiams di Saguenay in Quebec, ci è ancora più chiara, lampante e comprensibile la dicitura, in piccolo, sotto il titolo del festival, quel “pour tous” che amplia il pubblico e non riduce l’audience al solo panorama, come temi e messinscena, di ragazzi e adolescenti. In questi due esempi, la marionetta, come la maschera o il pupazzo, servono e tendono non tanto a semplificare il concetto quanto a renderlo più universale andando a toccare quelle corde ancestrali, poetiche, che dentro vibrano ad ogni latitudine, età, colore, religione. Potremmo dire che la marionetta sia altamente e fortemente democratica.
Forte e violento è il messaggio diretto sprigionato dai continui contatti e minacce, psicologiche, verbali e fisiche, di “Haikus”, un concentrato delle angherie subite, in ogni angolo del globo, dai prigionieri, dai detenuti, dai carcerati soprattutto nei regimi di polizia e dittatura dove per finire dietro le sbarre, in galera, è necessario soltanto professare e supportare un’altra parte politica, un’altra fede religiosa, altri credi o scelte sessuali o esprimere le proprie idee. Chi è libero, o meglio chi non si mostra schiavo e supino rispetto ai poteri forti, in questi Stati viene considerato come un terrorista, un nemico del popolo e per questo rinchiuso, senza alcun diritto, processo o protezione. “Haikus” (della compagnia quebecchese Theatre à bout portant) è una sorta di “Le mie prigioni” di Silvio Pellico mixato con “Se questo è un uomo” di Primo Levi, ma nel quale si intravedono anche i terribili chiaroscuri del “Diario di Anna Frank” o le atmosfere criptiche e le esalazioni di brividi della “Città di K” della Kristof.
L’impianto è una concatenazione di elementi a costruire una cattedrale di ferraglia, ingranaggi arrugginiti e scaffalature d’acciaio dove i calzini sono l’oggetto principe. Il calzino sia come metafora del bavaglio, stretto legato alla bocca del rapito, o come sublimazione del passo, del cammino, della scarpa, quindi dell’andare, di scappare, di fuggire, di correre liberi lontano dalla prigionia, dalle catene, dalla costrizione. Una storia di un carceriere e di una detenuta dentro una lavanderia della prigione che attua con tutte le sue forze una Resistenza attiva ma soccombe di fronte alla violenza (mimata ma ugualmente shoccante come un colpo alla bocca dello stomaco) dei suoi aguzzini. Ci vengono in mente le immagini provenienti dall’Isis, quelle dei campi di concentramento nazisti oppure quelle di Boko Haram. Il calzino potrebbe essere anche l’emblema della spoliazione e della svestizione, con conseguente perdita dell’identità, dei deportati ebrei nei lager. Dentro i calzini viaggiano lettere per gridare il proprio dolore e allarme. Come tanti message in a bottleche forse nessuno leggerà. Una piece evocativa, impegnativa, che non lascia tregua, pesante come solo può essere l’ultimo viaggio delle bestie da macello: viscerale.