Antonio e Cleopatra secondo Valter Malosti

Di William Shakespeare, uno spettacolo di Valter Malosti, traduzione e adattamento Nadia Fusini e Valter Malosti, con Anna Della Rosa, Valter Malosti, Danilo Nigrelli, Dario Battaglia, Massimo Verdastro, Paolo Giangrasso, Noemi Grasso, Ivan Graziano, Dario Guidi, Flavio Pieralice, Gabriele Rametta, Carla Vukmirovic, scene Margherita Palli, costumi Carlo Poggioli, disegno luci Cesare Accetta, progetto sonoro GUP Alcaro, cura del movimentoMarco Angelilli, maestro collaboratore Andrea Cauduro, assistenti alla regiaVirginia Landi, Jacopo Squizzato, assistenti alle scene Marco Cristini, Matilde Casadei, assistenti ai costumi Simona Falanga, Riccardo Filograna, chitarra elettrica live Andrea Cauduro, arpa celtica live Dario Guidi, costumi realizzati da Maria Vittoria Pelizzoni, Adriana Cottone per ERT /Teatro Nazionale e da Tireili Costumi. Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Bolzano, LAC Lugano Arte e Cultura. Visto al teatro Arena del Sole di Bologna, mercoledì 17 gennaio alle ore 19.

C’è una suggestiva sensazione, ma in fondo è anche una intenzione, che emerge in Shakespeare e che sembra aver guidato, in questa messa in scena, anche Valter Malosti che la dirige dopo averne fatto una nuova interessante traduzione insieme a Nadia Fusini.

Cioè quella o quelle, che in fondo riguardano sempre anche noi stessi, per cui è ‘necessario’ mettere comunque ordine al dis-ordine anche se da quel molto presunto dis-ordine siamo affascinati e quasi interpellati, in un dialogo inestiguibile cui però, con nostra grande e malinconica dis-illusione, dobbiamo mettere una fine, perchè nel mondo in senso lato così si deve fare, avendone però per sempre nostalgia.

Lo scrive lo stesso regista nel libro di sala: “uno dei temi che mi è apparso fin da subito particolarmete affascinante e centrale è il conflitto tra ordine e disordine”, per concludere, citando l’Ottaviano dell’ultima scena, “massimo ordine che vuole cancellare per sempre il massimo disordine”, senza dirci però da che parte sta (se non con il teatro).

La poesia e soprattutto la scena, quando talvolta riescono ad ascoltare la nostra nostalgia e a lenire la nostra malinconia, sono il luogo ‘principe’ per recuperare ciò cui abbiamo rinunciato.

D’altra parte Antonio e Cleopatra, come molte delle sue più tarde drammaturgie, si intuisce sia anch’essa capitolo di una sorta di summa a puntate con cui Shakespeare avrebbe voluto, odiando naturalmente e irrimedibilmente ogni trattatistica che odorasse di ‘metodo’, riepilogare e farci indirettamente intendere il suo fare teatro, un fare teatro che solo ‘facendo teatro’ (anche da spettatori) può essere capito.

È, questo andato in scena al teatro “Arena del Sole” di Bologna nella produzione di ERT Emilia Romagna Teatro, uno dei drammi storici shakespeariani meno rappresentati, in Italia in particolare, in quanto dramma assai complesso in cui il doppio è continuamente reiterato (ordine e dis-ordine, amore e morte, occidente e oriente, alto e basso, regalità e volgarità, comico e tragico e anche Potere e Umanità storicamente intesi) irrompendo sul palcoscenico nel suo groviglio quasi inestricabile che lì si tenta di sciogliere come il mitico nodo gordiano.

La dimensione di questo mimetico conflitto che il testo porta con sé è tale da transitare in metafisica, riportandoci ad un passaggio epocale di cui i mille universi di Giordano Bruno e il suo Dio-Natura poi svelato da Spinoza, costituivano lo ‘skàndalon‘ ove la storia e l’idea dell’uomo alla fine inciampavano.

Ma alla fine, e questa è la dimensione essenziale del teatro, ciò che Antonio e Cleopatra mostra è un uomo ed è una donna in cui poter mescolare e sintetizzare, attraverso il motore indomabile dell’eros, tutte le spinte e le contraddizioni della Vita e delle vite che viviamo, appunto segnate dalla Storia, dalla politica, dall’arte e dalla filosofia.

Una missione ‘impossibile’ (ma non per il Bardo) cui si accosta dapprima la moderna traduzione che deve gestire innanzitutto il conflitto linguistico tra alto e basso e lo fa con successo, e poi la messa in scena che, questa sì, deve necessariamente scegliere, ridurre e concentrare attorno ai due protagonisti e a pochi altri personaggi (tra i molti dell’originale) l’intera struttura narrativa e drammaturgica.

La regia lo riesce a fare scegliendo la parola come vera protagonista, una parola che sostituisce e insieme si incarna dentro una scenografia ‘monumentale’ che parte visivamente dalla fine (la morte e il mausoleo) per ricostruirne in un finto flashback i momenti che quell’esito determineranno, per riacchiappare Erosprima che precipiti nella sua tomba.

Tornando all’aspetto più politico e storico, dentro una sorta di limpida vivisezione della regalità messa a confronto con la sua e la nostra contemporaneità, una regalità che si alimenta di potere per sé e si maschera da illusione per tutti gli altri, è in fondo paradossale che una tale mortale nemica di Roma sia sfuggita alla damnatio memoriae che tutti gli avversari hanno subito.

La tragedia cerca di svelarci il segreto di questa sopravvivenza nel tempo e anche oltre il tempo, il segreto prima di una quasi bambina e poi di una giovane donna (di stirpe aristocratica erede del sogno del grande Alessandro Magno) alle prese non tanto con due (o forse solo uno) conquistatori del mondo ma soprattutto con il proprio autonomo e ambizioso disegno di ‘potere’ e conquista (o magari solo di salvezza).

Forse è proprio la ‘dismisura’ ad essere il suo segreto e insieme l’aver saputo, con il suo essere innanzitutto ‘donna’, vivere quella dismisura in entrambi i campi, quello della vita interiore dell’erotismo, spesso da altrui storpiato e deformato in semplice lussuria, e quello della vita esteriore nella comunità.

Nell’elaborare tutto ciò gli attori devono sapere utilizzare gli infiniti registri che orbitano attorno all’alto e al basso linguistico del testo, e lo fanno con impegno di fronte ad una scelta di forse eccessiva esplicitazione o contemporaneizzazione dei gesti che accompagnano le parole, così che il comico dei primi confligge a volte con il tragico delle seconde producendo risate che hanno più lo stimma della sofferta partecipazione che quello della liberazione.

Uno spettacolo come detto difficile in sé, per lettura e interpretazione, maneggiato con cura letteraria e registica molto apprezzabile, con una recitazione di complessiva qualità, ed una resa scenica di ottimo livello. Molti gli applausi.

Pubblicato su Sipario.it il 25/1/2024 Foto di Tommaso Lepera

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