Remigio Zena, verismo alla genovese

La Bricicca,  fruttivendola  ( per l’esattezza “besagnina”) verace,  con lotto clandestino sottobanco e  figlie pronte a rispondere a vocazioni religiose o fin troppo mondane, il signor Costante disinvolto in ogni affare,  tanti  personaggi in bilico tra miseria e nobiltà .

Con una produzione all’aperto di Lunaria, affiancata a nuovi progetti di riqualificazione di una piazzetta di Genova, soprannominata dopo lo sventramento di un antico quartiere “Giardini di plastica” torna in scena  il 22 aprile, “La bocca del lupo” su  un testo rielaborato da Daniela Ardini e Paolo Portesine , con costumi di Giorgio Panni e Giacomo Rigalza  e gli attori e danzatori di Lunaria.

La nuova vita spettacolare del romanzo che  Remigio Zena (ovvero il marchese  Gaspare Invrea ) scrisse nel 1877 sull’onda del naturalismo francese  e del nostro verismo,  prevede anche un percorso guidato nel quartiere che circonda via Ravecca, in una rete di vicoli che che lasciano traspirare il passato anche nei nomi,   come Vico del Drago, vico delle Fate, salita della Fava Greca che ispirò all’autore la piazzetta della Pece Greca, crocevia di vite senza riscatto.

L’idea certamente è funzionale a una riflessione storica e urbanistica  ma spinge anche ad altre considerazioni, drammaturgiche e letterarie che possono interessare chi non è di Genova e non può raggiungerla per vedere lo spettacolo .

Prima fra tutte il caso straordinario di un’opera che non è stata scritta per il teatro  ma che,  senza il teatro, oggi sarebbe ingiustamente dimenticata.

L’hanno riproposta,  sempre a Genova in passato,  piccole compagnie come  “Gli amici di Jachy”  ma il grande evento di una riscoperta che rimise in discussione molti snobismi,  risale a quarant’anni fa. Porta la firma di di Arnaldo Bagnasco per una versione memorabile dello Stabile che vedeva al centro dell’ affresco Lina Volonghi. Senza i mezzi per riproporre quel “kolossal “, l’epopea oggi si propone in versione per così dire rapsodica.

La folla di personaggi esperti nell’arte di tirare a campare  si è dovuta restringere ma il senso del romanzo resta. E,  con le emozioni,  passa allo spettatore l’opportunità di revisionare certi atteggiamenti  critici  che  accantonarono il romanzo, di risarcire quell’atto di giustizia sommaria, per non dire ingiustizia ,  subita dall’autore (che, per inciso,  nella vita era uomo di legge).

Si può segnalare uno scherzo del destino anche sul fronte dello stile.  Nel riconquistare teatralmente quell’attenzione che la critica letteraria gli aveva lesinato, il romanzo non si è presentato con dialoghi già belli e pronti per la scena. I  pensieri,  gli intrighi,  le vicissitudini  dei personaggi  sono raccontati dall’autore, ma come farebbero loro: con sfumature di colore dialettale che non è bozzettismo ma notazione psicologica. Lo stile rivela un’immersione  totale del cronista -magistrato in quel mondo:  una “simpatia” tutt’altro che stucchevole apprezzata anche da Montale.

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