G8 Genova, Davide Livermore: “La mia installazione per non dimenticare è un viaggio di pura cronaca”

“Scattate pure istantanee con il vostro smartphone ai miei spettacoli. Riprendete i momenti chiave, postate quanto vi pare, condividete emozioni, punti di vista e critiche sui social”. Davide Livermore, direttore del teatro Nazionale di Genova, regista internazionale che firma per la quarta volta il titolo d’apertura della stagione della Scala, va controcorrente sull’uso dei telefonini in sala. “Il teatro è di tutti, deve essere accessibile a tutti, realizzare la sua funzione sociale e civile di partecipazione della comunità. Oggi non si può far finta che la Rete non esista: è uno spazio di confronto imprescindibile”. E rilancia: “La pandemia ci ha aperto gli occhi: ci sono molti più abbonati alle stagioni teatrali che alle squadre calcistiche di serie A. E il teatro persino in tv fa il record di share”.

Dopo il successo dell’apertura della scorsa stagione scaligera in tv, il prossimo dicembre si tornerà al Piermarini in presenza: come sarà il suo Macbeth?
Lavorare per la contemporaneità per me significa restituire il senso rivoluzionario e tuonante di un’opera: alla musica di Verdi, alla narrazione di Shakespeare, al libretto di Piave. Mi sento una sorta di decoder. Ci sarà molta tecnologia, sarà un allestimento di impatto. Il progetto parla all’oggi, racconta la scalata al potere attraverso il sangue. Cosa significa oggi Patria oppressa? Che valore hanno un vaticinio, una profezia? Penso a muri che cadono, a golpe silenziosi, a massacri di mafia, a fatti che appartengono alla nostra storia recente.

Fare luce/Making light è invece l’installazione di memoria nel ventennale del G8 in corso al teatro Nazionale di Genova: in questo caso è la cronaca a invadere il teatro?
Di quei giorni abbiamo fotografie, servizi tv, film, documentari. Il mio obiettivo, ispirato al modello della Casa della memoria di Santiago del Cile, è di offrire una sorta di cronaca pura degli eventi del G8 di Genova. Gli spettatori entrano in un enorme cubo bianco allestito sul palco del teatro Ivo Chiesa avvolti dalle musiche di Stellare-Sartoria Sonora.

E poi?
Iniziano a vivere un percorso attraverso il cellulare, grazie a una app sviluppata appositamente. Inquadrano marker che sbloccano elenchi, date, cifre, cronache, sentenze. Si compone così un racconto di ciò che accadde in quei giorni, suddiviso in dieci step, che ciascun spettatore può comporre e tenere sul proprio smartphone. Il G8 Project proseguirà con spettacoli e incontri intrecciandosi alla stagione e alle iniziative legate ai 70 anni del Teatro di Genova.

Porta avanti quel teatro-documento nato proprio a Genova con Ivo Chiesa alla fine degli anni 60?
Fra Genova e il teatro civile c’è un legame forte. Sono fiero di lavorare nel luogo che Ivo Chiesa ha diretto per decenni, realizzando eventi straordinari per l’epoca. La mia storia personale, di ragazzo che lavorava come educatore nelle cooperative sociali, si inserisce in questa visione. Il ruolo di agorà pubblica è connaturato al teatro.

Di cosa si nutre il suo immaginario?
Fumetti, architettura, cinema. Non mi pongo limiti. Anche i concerti rock degli anni ’70 sono esperienze a cui attingere. E i grandi eventi olimpici. Sono stato coautore del progetto tecnologico e artistico dei campionati mondiali di tiro con l’arco a Torino nel 2011: lo sport è spettacolare. Ma è il teatro il luogo aperto alla bellezza “terribile” dell’arte a disposizione di tutti. Che non significa rinunciare alla qualità. Ma saper fare e comunicare questa bellezza. Avere il coraggio di aprire un credito di intelligenza nei confronti del pubblico.

Ha imparato di più dagli spettacoli che funzionano o da quelli che non funzionano?
Ho imparato moltissimo dagli spettacoli brutti. Vedere le cose che non funzionano vuol dire capirne la dinamica. Tutto il teatro è un processo costruttivo. Offre la possibilità di apprendere sempre, ogni esperienza ha un valore assoluto.

Come descrive il momento della pandemia?
Un momento storico unico e straordinario che ha dimostrato che con la cultura si mangia anche, si crea lavoro, indotto. Già prima del Covid gli abbonati alla serie A di calcio erano inferiori agli abbonati dei teatri. Nonostante 25 anni di “rincoglionimento televisivo” con la tv commerciale, anche statale, il pubblico ha seguito il teatro persino in tv.

Pubblico conquistato pochi giorni fa al teatro Greco di Siracusa dal suo Coefore-Eumenidi di Eschilo, di grande impatto visivo. Il rapporto con la tecnologia?
Uso la tecnologia come la usavano Eschilo, Euripide, i Fratelli Galliari, lo scenografo ceco Svoboda. Il teatro è da sempre luogo di sperimentazione tecnologica. Pensiamo al rapporto fra ingegneria navale e teatro greco, alla prospettiva del disegno settecentesco nella scenografia, alla tecnologia led wall, che nasce in realtà come cartellonistica stradale.

Conferma di voler portare a Genova Čechov in russo dal teatro Alexandrinsky di San Pietroburgo?
Certo. Sto lavorando a un progetto di scambio per portare da questo importantissimo teatro di prosa russo un titolo di Čechov in lingua originale.

Non crede sia impegnativo per il pubblico?
Abbiamo visto Nekrošius in lituano, il pubblico di tutto il mondo apprezza la nostra lingua nell’opera lirica. Vogliamo cambiare la lingua di Traviata? Il limite non è mai la lingua nel teatro, anzi. E’ suono, emozione. Chi dice che la lingua originale in uno spettacolo è un limite all’internazionalizzazione dice una boiata. Lo scriva.

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