Intervista a Emma Dante
L’estate scorsa, se il Covid-19 non ci avesse messo lo zampino, Emma Dante, con la sua compagnia Sud Costa Occidentale, avrebbe dovuto presentare al Festival di Spoleto e successivamente a quello di Avignone, Pupo di zucchero, la sua ultima creazione coprodotta dal Teatro Nazionale di Napoli e liberamente ispirata a una delle novelle de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile.
Lo spettacolo debutterà il prossimo luglio nell’ambito della quarta edizione della rassegna Pompeii Theatrum Mundi che il Teatro di Napoli organizza in collaborazione con il Parco Archeologico di Pompei.
Al Teatro Mercadante di Napoli Pupo di zucchero doveva debuttare lo scorso gennaio: un appuntamento soltanto rinviato con le voci, i suoni, i corpi che nei tuoi spettacoli sono sempre capaci di stupire per la loro espressività e di commuovere aprendo toccanti squarci sugli aspetti più sostanziali della vita umana trasfigurati in arte scenica, ma non per questo meno carichi di disperata e dolorosa vitalità. Corpi che in teatro, e più che mai nella tua poetica, non possono prescindere dall’entrare in contatto tra loro. Ma la crisi sanitaria ha messo in discussione proprio la relazione tra le persone, imponendo la distanza fisica. È possibile rendere compatibile questa esigenza con la prassi teatrale?
I teatri sono luoghi d’elezione delle comunità e le comunità hanno bisogno della vicinanza e del respiro dei loro membri, in questo caso degli artisti e più che mai degli spettatori. La partecipazione alla creazione artistica per il pubblico è qualcosa di fondamentale perché contribuisce allo sviluppo del senso critico, della fantasia, dell’immaginazione, perché aiuta a superare i problemi di aggressività, di intolleranza, ad accettare la diversità, a elaborare i lutti, ma soprattutto perché offre le chiavi di lettura utili alla comprensione del mondo che ci circonda e di quello che sta succedendo in un determinato momento storico. Invece negli ultimi mesi la preoccupazione più grande è stata quella di capire se il Festival di Sanremo dovesse svolgersi con il pubblico oppure no, così come lo scorso dicembre ci si è preoccupati solamente dei regali di Natale. Questo mi fa davvero cadere le braccia e mi fa pensare che noi artisti, come pure gli intellettuali, forse abbiamo agito poco, non abbiamo alzato abbastanza la voce quando i provvedimenti presi per contrastare la pandemia hanno colpito così duramente il mondo della cultura. E non è stato bello scoprire neppure che viviamo in un Paese in cui se si chiudono i teatri e i cinema nessuno si ribella, nemmeno di fronte a contraddizioni clamorose come quelle che hanno continuato a consentire alle chiese di svolgere le loro celebrazioni. Non riesco a fare a meno di domandarmi per quale motivo i fedeli possano continuare a partecipare alle funzioni religiose e a condividere il loro credo, mentre le persone che abitualmente frequentano i teatri, i cinema, le sale da concerto non possono partecipare ai loro riti laici, non possono alimentare il loro credo. È veramente incomprensibile quale sia la differenza tra questi luoghi che sono egualmente spazi di culto, templi per chi crede in Dio e per chi crede nell’arte come indispensabile nutrimento dell’anima, come bene prioritario e irrinunciabile per un paese civile.
Ma il discorso si fa ancora più ampio quando si pensa che i centri commerciali, i treni, gli aerei, gli autobus hanno ritrovato una certa normalità: allora sembra davvero che ci sia una sorta di discriminazione nei confronti del mondo della cultura, una discriminazione che mi ha portato a scoprire qualcosa che, almeno io, non mi aspettavo e cioè che il mio lavoro, il lavoro degli artisti non è considerato necessario, non è indispensabile, non è una priorità e, come si può immaginare, questa è stata una scoperta estremamente dolorosa, perché io, al contrario, sono convinta che il teatro, il cinema, la musica dal vivo siano fondamentali per la crescita e lo sviluppo della società.
Ritieni dunque che gli intellettuali e gli artisti potevano incidere di più sulle decisioni prese dal Governo rispetto al settore della cultura?
Sì, credo che abbiamo fatto poco, che non ci siamo ribellati e fatti sentire abbastanza. Ci siamo chiusi in casa e adattati a una situazione che, come dicevo prima, è chiaramente discriminante. Peraltro è stato ampiamente dimostrato che nei teatri e nei cinema non ci sono stati focolai che giustificassero i provvedimenti presi lo scorso ottobre, specialmente dopo che tutte le strutture si erano rigorosamente conformate alle prescrizioni di sicurezza. E non si capisce nemmeno perché non si sia minimamente provato a trovare altre strade per tenere aperti questi luoghi: se il problema era il coprifuoco, si poteva consentire l’esercizio in altri orari, perché sono tantissime le persone che, o per il tipo di lavoro svolto o perché in pensione, possono permettersi di assistere a uno spettacolo cinematografico o teatrale di mattina o di pomeriggio. Come pure nessuno ha pensato di andare incontro alle esigenze dei bambini e dei ragazzi immaginando degli adattamenti teatrali apposta per loro, costretti già, com’erano, alla didattica a distanza che secondo me è l’emblema della morte civile.
La lontananza dai teatri e dai cinema che – a parte il breve periodo estivo e di inizio autunno – dura ormai da un anno, secondo te determinerà una resistenza del pubblico a tornare in sala quando finalmente sarà possibile?
La situazione attuale è molto diversa da quella della primavera scorsa. La paura è cambiata, ha cambiato corpo, non si teme il Covid-19 in sé, ma si teme il prossimo, l’altro, che è peggio. Questo sicuramente non aiuterà i teatri, perché i teatri sono i luoghi dove si sta vicini, dove ci si ritrova proprio con gli altri che sono lì per la stessa ragione per cui ci sei tu, e che per questo ti sono amici o quanto meno complici perché uniti dalle stesse esigenze. Forse non si è considerato che tenere i teatri chiusi anche quando si è cominciato a riaprire le attività commerciali avrebbe potuto indurre le persone a pensare che siano i posti più pericolosi in assoluto, paradossalmente più dei ristoranti dove bisogna necessariamente togliere la mascherina per mangiare! Ma nonostante questo, io sono convinta che cinema e teatro siano mancati molto alla gente e quindi, appena si potrà, il pubblico tornerà nelle sale con gioia. Sarà un po’ come quando per un periodo non puoi mangiare una cosa che ti piace tanto: quando puoi riprendere a mangiarla scopri con un piacere molto più grande quant’è buona.
L’assenza di spettacoli dal vivo ha aperto la strada all’uso delle tecnologie della comunicazione (televisione, piattaforme, streaming). Pensi che le arti sceniche se ne siano giovate?
Io non credo nel teatro in streaming, l’ho dichiarato tante altre volte, non l’ho accettato quando mi è stato proposto, non ritengo che sia un’esperienza capace di colmare il vuoto determinato dall’assenza di spettacoli dal vivo. Credo che possa essere un accompagnamento durante questa assenza, ma come modalità altra certamente non alternativa al teatro. Naturalmente i teatri che hanno continuato a lavorare a porte chiuse, preparando comunque spettacoli da mandare in televisione o in streaming, hanno fatto benissimo, perché era l’unico modo per mantenere vivo il contatto con il pubblico, per tenere il fuoco acceso e permettere agli spettatori di ritrovare il calore che solo l’arte sa dare, quando torneranno nelle sale. Però, ripeto, non credo nel teatro in streaming, non credo che a uno spettacolo teatrale si possa assistere in maniera solitaria, davanti a uno schermo. Mi viene da piangere al sol pensiero. Il teatro è un’esperienza del presente che non può essere riprodotta in video. Non credo nemmeno che si possano vedere film sulle piattaforme: i film vanno visti al cinema!
Come immagini il teatro del prossimo futuro e che prospettive vedi per i giovani?
I giovani sono sicuramente i più penalizzati da questa situazione: già non stavano messi bene prima, quando uscendo dalle scuole non sapevano dove sbattere la testa, figuriamoci quelli che si sono diplomati nelle Accademie un anno fa, oppure quelli che si trovavano in mezzo a una strada quando i teatri erano aperti e adesso sono ancora lì con i portoni chiusi: si può solo immaginare la loro frustrazione e il loro disorientamento. Io spero davvero che questa storia nel giro di un anno o due ce la saremo lasciata alle spalle, dimenticata non credo, specialmente per chi ha perso delle persone care o è finito sul lastrico. Fatto sta che bisogna andare avanti e io mi auguro davvero che i giovani trovino la giusta attenzione da parte delle istituzioni, perché per i disoccupati, gli intermittenti, per quelli che non avevano contratti, dopo un periodo così atroce sarà difficilissimo riprendersi, diversamente da noi che un lavoro ce lo avevamo e quindi riprenderemo a farlo. Certo, i problemi che c’erano prima della pandemia nel nostro settore torneranno tutti e probabilmente più forti di prima: la crisi della cultura avrà le sue varianti, proprio come il covid. Però voglio essere ottimista, ce la faremo, perché noi artisti sogniamo ad occhi aperti e questo privilegio non ce lo può togliere nessuno: ci saranno sicuramente delle cose belle che verranno fuori da questa crisi perché gli artisti da soli, a casa loro, nascosti negli scantinati hanno potuto solamente creare e provare, cosicché quando i teatri riapriranno ci saranno talmente tante opere pronte che il pubblico ne sarà subissato. E credo che tutti non aspettiamo che questo momento, perché non potendo vedere spettacoli, film, mostre, partecipare a concerti non sappiamo più di cosa parlare, mancano argomenti e occasioni di scambio e ormai non ci bastano più quelle che ci creiamo in famiglia con chi, peraltro, il più delle volte ha un’opinione simile alla nostra. Abbiamo bisogno del fondamentale momento dell’elaborazione con gli altri, del confronto con l’opinione e il pensiero diverso dal nostro. L’arte serve a questo, serve a mettere in relazione e in connessione persone e pensieri differenti perché è nella diversità che è possibile trovare incomparabili forme di ricchezza.