TORINO – La Torino delle macchine e del Museo del Cinema, la Torino dei libri sotto i portici, la Torino delle Olimpiadi e della Mole, la Torino di Superga e del gianduiotto, la Torino degli aristocratici francesi e la Torino degli arabi dei Murazzi. Ma anche la Torino del Teatro ragazzi e del teatro di figura. Il Festival “Incanti” (la direzione solare e precisa è di Alberto Jona), compie 25 anni, è una certezza consolidata, una presenza costante, un caposaldo solido. Il teatro di figura è una scoperta continua e, anche se all’estero (quest’anno è stata ospite la scuola di Stoccarda) la disciplina è molto più sostenuta e considerata, sembra che goda di ottima salute anche da noi. Tra esperienze nostrane e piece europee “Incanti” ha mostrato una varietà di possibilità ed occasioni di fruizioni diverse, pupazzi a grandezza umana dove infilarcisi dentro o marionette a mano, giocolerie o scatole magiche. C’è costruzione e artigianalità, c’è manualità. E lo spettatore sente tutta la sapienza teatrale e il mestiere del palcoscenico, la percepisce, la avverte, la tocca con lo sguardo, la capisce, la assapora, ci entra dentro. Paradossalmente la platea si sente più rappresentata e più vicina ad un burattino o ad una maschera, a quel linguaggio universale fanciullesco (mai morto dentro ognuno di noi) che ad un attore in carne ed ossa. Il pupazzo, se a prima vista ci allontana dalla nostra realtà ritenendolo distante dalla vita di tutti i giorni, mano a mano che il racconto entra nel vivo riesce a toccare corde intime sepolte, parentesi lasciate socchiuse, porte che aspettavano soltanto qualcuno che le spingesse per far uscire colori e fantasia, visioni e percezioni che, spesso, l’età adulta cancella e mette a tacere, sopisce ed anestetizza colpevolmente.
Ad esempio “Tu” del Piccolissimo Teatro, spettacolo per un solo spettatore alla volta, ti fa sedere davanti ad un mini carrozzone dove scorrono immagini artigianali di pannelli in legno, figure proiettate, personaggi di pastella, disegni animati. Pochi minuti, dolci, teneri, sognanti, leggeri (ma con finale tutt’altro che consolatorio) per guardare dal buco della serratura e sentirsi già adolescenti, sbirciare dove non si può, entrare, con gli occhi e le pupille, a scovare un mondo altro, un universo non riconoscibile ai più ma soltanto a chi ha cuore e coraggio per mettere lo sguardo dentro il cannocchiale. Una cuffia e già la percezione dell’intorno cambia senso e forma; in scena, sul piccolissimo teatro, si avvicenda un uomo che per necessità deve emigrare. Solo, abbandonato, emarginato, ripudiato e allontanato da tutti, trova un amico simile a lui, un cane randagio. In un naufragio l’amico peloso perde la vita mentre il migrante viene incarcerato e lì, tra incubo e realtà, l’uomo (si chiama Tu, perché potremmo essere, un giorno, tutti noi nelle sue stesse condizioni) sogna la libertà, una libertà dalla schiavitù e dalla sbarre, una libertà anche chiamata morte.
Abbiamo fatto, all’interno della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani proprio accanto allo Stadio Grande Torino (la vera squadra della città), dopo questo preludio italiano, un giro d’Europa, toccando Germania, Belgio, Francia, Olanda. Una bella panoramica, soddisfacente, piena, aperta, succosa.
Dalla Germania arriva “Versus” che si apre in una situazione d’apparente felicità che subito diventa pinteriana per il mistero, beckettiana nel suo essere apocalittica; la festa è finita, sul tavolo rimangono una tovaglia macchiata, bicchieri di plastica caduti, coriandoli tristi. Se la festa è finita e gli amici se ne sono andati, restano soltanto due personaggi, o meglio uno solo ma moltiplicato per due, duplicato di se stesso. Ai due lati della lunga tavola, un uomo e il suo doppio, identico, perfetto, strabiliante. Ci ha ricordato la performance di Marina Abramovic “The artist is present”. Qual è l’attore e quale il manichino? I piani si confondono, la psiche si scinde, scricchiola lo slittamento. Si guardano in cagnesco, immobili, come una sfida nel Far West di Sergio Leone o attorno al tavolo verde del poker. Chi bluffa? Nessuno dei due abbassa lo sguardo. Impressionante per la verosimiglianza, il manichino sembra uscito dal Museo delle cere di Madame Tussaud. Si muovono a specchio: da una parte l’uomo dall’altra lo stesso umanoide ma mancante dei suoi 21 grammi d’anima. Sembra che la festa sia finita, la vita, e la parte cosciente stia abbandonando il corpo, ormai carcassa e ammasso di pelle e ossa e muscoli, e si stiano guardando, e salutando, per l’ultima volta prima di allontanarsi, uno salirà ai piani alti, l’altro sprofonderà fino a tornare pulviscolo.
Atterriamo in Francia dove la Compagnie Philippe Genty con “La pelle du large”, gioco di parole transalpino, ci fa immergere in un riassunto vibrante dell’Odissea tutto azionato e manovrato all’interno dei codici degli utensili, della cucina, dell’oggettistica gastronomica e casalinga. Immediatamente abbiamo pensato al magnifico “Sandokan” dei Sacchi di Sabbia. L’elmo è uno scolapasta, Ulisse è un tirabusciò per stappare le bottiglie, una scopa mozzata diventa una nave, un ventaglio sono le vele spiegate, i compagni d’avventura sono caramelle, le conchiglie sono telefoni, i palloncini pieni d’acqua sono nuvole che esplodendo fanno piovere, le forbici diventano rami di alberi, un cavolo è un’isola, i Proci sono delle posate, Penelope è un blocco di ghiaccio che si squaglia quando l’amato fa ritorno. Tra “La Tempesta” shakespeariana e il “Moby Dick”. Mare, profumo di mare.